Il giardino dei ciliegi

dal 3 ottobre al 15 novembre

Ho sempre pensato che Il giardino dei ciliegi fosse una storia “nostra”. Questi nobili decaduti che vivono nell’inerzia, incapaci di reagire ai problemi posti dalla vita, questi dandy che si “sono mangiati il patrimonio in caramelle” o sono “morti di champagne”, somigliano a tanti racconti sull’aristocrazia napoletana, incapace di entrare nella modernità. Andrej Konchalovskij, convenendo con la mia tesi, mi diceva, un anno fa, come, sia la civiltà russa che quella del nostro meridione, hanno saltato la modernità diventando direttamente post-moderne.

Il giardino dei ciliegi

LO SPETTACOLO

Ho sempre pensato che Il giardino dei ciliegi fosse una storia “nostra”. Questi nobili decaduti che vivono nell’inerzia, incapaci di reagire ai problemi posti dalla vita, questi dandy che si “sono mangiati il patrimonio in caramelle” o sono “morti di champagne”, somigliano a tanti racconti sull’aristocrazia napoletana, incapace di entrare nella modernità. Andrej Konchalovskij, convenendo con la mia tesi, mi diceva, un anno fa, come, sia la civiltà russa che quella del nostro meridione, hanno saltato la modernità diventando direttamente post-moderne. Una delle cause della perenne crisi del nostro Sud fa capo proprio all’incapacità che abbiamo avuto di entrare nel Novecento, di vivere la rivoluzione industriale, di diventare moderni. Sono infatti convinto che ci sia qualcosa in comune tra la leggerezza cechoviana e quella dello scrittore napoletano Raffaele La Capria, entrambe dedicate al racconto della decadenza di una classe egemone. I personaggi di Čechov sembrano essere feriti a morte da un’armonia perduta, per usare due celebri espressioni lacapriane.

Però questo straordinario capolavoro, l’ultimo grande testo naturalista, non è solo un affresco sociale. È anche un poema in cui si racconta della incapacità di diventare adulti, di uscire dalla dimensione del gioco, del puro piacere (si può essere infantili e sensuali allo stesso tempo), del sogno, rifiutando ostinatamente di entrare nell’età adulta e nella realtà razionale.

In questo senso Il Giardino è un grande mistero, perchè se da un lato porta al limite che sfiora la perfezione l’affresco naturalista del disegno dei caratteri con un continuo concertato che somiglia più che mai alla vita, dall’altro contiene elementi assolutamente simbolici, come la stanza dei bambini, il rumore metafisico che chiude il secondo atto, il fragore degli alberi abbattuti che accompagna il finale.

Studiando la storia delle messe in scena del Giardino attraverso il bellissimo saggio di Georges Banu, si capisce che ci sono sostanzialmente due “partiti”: quello delle regie naturaliste e quello delle regie simboliste. Entrambe hanno diritto di cittadinanza partendo da un testo pieno di richiami psicologici ma anche di segnali che escono dal realismo. Io ho cercato di valorizzare entrambi gli aspetti del testo, lavorando su una interpretazione accurata dei vari caratteri, delle situazioni emozionali e psicologiche che il grande scrittore crea mirabilmente e, insieme, scavando gli aspetti simbolici.

Ho seguito il naturalismo del testo stilizzandolo ma ho provato anche a valorizzarne il versante simbolico creando spazi di sospensione, di trasfigurazione poetica, che lascino intravedere quali squarci di decadenza, di dolore, si creano sotto il chiacchiericcio apparentemente vacuo e frivolo della commedia. Spesso questi squarci hanno un sapore infantile e sono convinto che Strehler avesse visto giusto nell’attribuire molta importanza alla circostanza che il primo ambiente della commedia sia la stanza dei bambini. Il biancore della scena di Maurizio Balò sta tra le case a calce tipiche del paesaggio mediterraneo e una casa di marzapane delle fiabe.

Chi sono, in fondo, Ljuba, Gaev, lo stesso Pišcik se non dei bambini non cresciuti che considerano una “assurdità” lo scorrere del tempo? Persone che non si sono adattate ai cambiamenti della società, come personaggi dell’ultima grande commedia naturalista, che chiudono la quarta parete, come bambini che non vogliono lasciare la loro stanza dei giochi. In questa linea sospesa tra realismo e trasfigurazione poetica si inseriscono le luci di Gigi Saccomandi e i costumi di Maurizio Millenotti; cosi come le musiche originali composte da Ran Bagno e il prezioso apporto nel terzo atto delle coreografie di Noa Wertheim.

Al di là del mio disegno registico un testo come Il giardino dei ciliegi vive soprattutto di attori. Voglio perciò ringraziare quelli impegnati in questo allestimento che hanno intrapreso senza paura la mia scelta mediterranea, trasformandosi quasi in un piccolo corpo di ballo, riuscendo a restituire naturalisticamente i loro personaggi pur in un contesto simbolico.

La grandezza di Čechov sta nel suo non giudicare i suoi personaggi. Non ho quindi forzato Claudio Di Palma a diminuire la sua naturale simpatia e comunicativa attoriale per creare un Lopachin “cattivo”, e non ho cercato, con Gaia Aprea, di evidenziare i difetti di Ljuba, né, d’altra parte, di “angelicarla”. Anzi ho assecondato la carica umana dell’attrice creando un personaggio meno “aereo” e più sensuale di quello a cui siamo abituati.

Forse ho risentito l’eco dei racconti familiari che mia madre mi ha fatto per anni di vecchi zii frequentatori di casinò, della nonna giocatrice di poker. Spero di aver creato, per questo, personaggi più credibili di un universo integralmente e astrattamente russo.

Questa eco da “lessico familiare” mi rende naturale dedicare questa regia a mia madre, che mi ha sempre educato all’amore per Čechov; amore che mi ha portato a cercare di avvicinare lo scrittore a noi per amarlo ancora più intensamente. [Luca De Fusco]

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