Assassinio nella cattedrale (Murder in the Cathedral)

13.18 febbraio

Cattedrale di Canterbury, dal 2 al 29 dicembre 1170.
Sono gli ultimi giorni dell’Arcivescovo Thomas Becket, di ritorno dalla sua permanenza in Francia, trascorsi sette anni.

Assassinio nella cattedrale (Murder in the Cathedral)

Cattedrale di Canterbury, dal 2 al 29 dicembre 1170.
Sono gli ultimi giorni dell’Arcivescovo Thomas Becket, di ritorno dalla sua permanenza in Francia, trascorsi sette anni.

ATTO PRIMO, sala dell’arcivescovo, giorno 2 dicembre 1170.

Il Coro introduce gli avvenimenti drammatici che stanno per accadere.
Tre sacerdoti riassumono le condizioni di pericolo derivanti dall’assenza di Becket, assenza che ha dato spinta al potere accentratore della Corona. L’araldo annuncia l’arrivo di Becket. L’arcivescovo svolge a sua volta una riflessione sul martirio al quale sa di andare incontro, che accetta con fatale rassegnazione.
Sulla scena fanno quindi la loro comparsa i tentatori, figure demoniache che rammentano quelle che tentarono il Cristo, pronti a lasciargli suggerimenti su come resistere al potere del re e salvarsi, sia pure dalla gloria del martirio. L’atto chiude sulla risposta di diniego di Becket il quale sa ormai quale sia la strada da percorrere.

INTERLUDIO, Cattedrale di Canterbury, mattina del giorno di Natale: Becket pronuncia un sermone sul valore spirituale di questo giorno, di gioia e tristezza insieme che la cristianità dedica ai suoi martiri.

ATTO SECONDO, sala dell’arcivescovo e navata della cattedrale. Giorno 29 dicembre 1170.
Quattro cavalieri giungono con informazioni urgenti da parte del re. I cavalieri hanno udito il re esprimere il suo disappunto rispetto a Becket, interpretando tale disappunto come un ordine per ucciderlo. Lo accusano di tradimento, ma egli dichiara la propria lealtà e richiede di essere accusato pubblicamente. Becket viene sottratto alla furia dei cavalieri dai sacerdoti che gli suggeriscono di fuggire e mettersi in salvo. Becket rifiuta.
Alla partenza dei cavalieri, Becket ribadisce di essere disposto a morire. Il coro accompagna con il suo mesto canto la scena, preannunciando il tragico finale. Becket è nella cattedrale quando i cavalieri vi fanno irruzione e lo uccidono. Il dramma si chiude sui versi in cui i cavalieri giustificano il proprio operato sostenendone la “giusta” necessità per impedire alla Chiesa di minare la stabilità del potere dello Stato.

Note di Regia

Mai come oggi, il capolavoro di Eliot, rappresenta una testimonianza senza tempo sul rapporto fra opposti, nel cuore della civiltà occidentale: Potere Temporale e Potere Spirituale, Ragione e Fede, Individuo e Stato. Libertà e Costrizione.
Nella vicenda così complessa (e di difficilissima analisi storica) fra Enrico II e colui che sarà – alla fine di un percorso politico e personale complicato e sofferto – Arcivescovo di Canterbury leggiamo il dramma e l’esizialità delle scelte che oggi si compiono davanti ai nostri occhi.
Di più: vi leggiamo lo iato fra la micro e la macro Storia; fra la grande vicenda dell’Umanità e la vicenda privata, piccola – a volte inutile, quasi sempre insignificante – di ciascuno di noi.
Persino nella nebulosità dei sicari, materialmente difficili da ricondurre con certezza alla responsabilità di Enrico quale mandante certo, leggiamo l’ambiguità del Potere e del suo Sistema nel rapporto con gli individui: manipolatorio, ricattatorio, inafferrabile.

In questa ambiguità di fondo, sembrano rispecchiarsi tutte quelle precedenti e quelle a seguire: dalla “conferenza di Wansee” all’ “Irangate”. Una costante dell’infingimento, della manipolazione – appunto – del Sistema, che indirizza i destini di interi popoli senza – apparentemente – esercitare coercizione, ma, anzi, promuovendo libertà e democrazia.
Non a caso, rappresentato nel ’35 proprio nei luoghi della vicenda reale, il dramma sembra raccontare più l’ascesa ed il pericolo del nazismo, che le vicende dei Plantageneti.

Oggi, il nostro allestimento, la nostra versione del dramma, mira appunto a questa “trasversalità” storica; a questa “atemporalità”, orientata a togliere la matrice specifica a questo conflitto, restituendola ad una dimensione più generalmente estesa.
Una rotta precisa, un percorso fatto di convincimenti profondi. Una scelta confermata anche dalla presenza di un Maestro del Teatro Civile più genuino che il nostro Paese esprime in questo momento: Moni Ovadia. Artista, attore, “cantore dell’impegno”, che – anche – nella sua appartenenza alla cultura “yddish”, suggerisce una polifonia di linguaggi ed istanze antropologiche, oltre che storiche, civili e sociali.

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