IL TESTO E LA TRAMA DELLO SPETTACOLO
Un ufficio. A Wall Street o in qualunque altra parte del mondo, poco cambia. È una giornata qualunque nello studio di un avvocato, un uomo buono, gentile, così anonimo che non ne conosciamo nemmeno il nome. Ogni giorno scorre identico, noioso e paziente, secondo le regole di un moto perpetuo beatamente burocratico, ovvero: meccanico e insensato. L’ufficio è spoglio, le pareti alte e grigie. Anche le finestre sono alte e irraggiungibili. Tutto si ripete come in uno di quegli orologi per turisti che si trovano nelle piazze della città antiche: il tempo viene scandito da un balletto senza senso, ma soprattutto senza inizio e senza fine. In questo ufficio popolato da una curiosa umanità – due impiegati che si odiano fra di loro e cercano di rubarsi l’un l’altro preziosi centimetri della scrivania che condividono, una segretaria civettuola che si fa corteggiare a turno da entrambi ma che spasima per il datore di lavoro, e una donna delle pulizie molto attiva e fin troppo invadente – un giorno, viene assunto un nuovo scrivano.
«Ed è come se in quell’ufficio – spiega Francesco Niccolini – sempre uguale a sé stesso da chissà quanto tempo, fosse entrato un vento inatteso, che manda all’aria il senso normale delle cose, e della vita. Eppure, è un uomo da nulla: «…rivedo ancora quella figura – scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta». Bartleby si chiama, e fa lo scrivano. Copia e compila diligentemente le carte che il suo padrone gli passa. Finché un po’ di sabbia finisce nell’ingranaggio e tutto si blocca. Senza una ragione. Senza un perché».
Un giorno Bartleby decide di rispondere a qualsiasi richiesta, dalla più semplice alla più normale in ambito lavorativo, con una frase che è rimasta nella storia: “Avrei preferenza di no”. Solo quattro parole, dette sottovoce, senza violenza e senza senso, ma tanto basta. Un gentile rifiuto che paralizza il lavoro e la logica: una sorta di inattesa turbolenza atmosferica che sconvolge tanto l’ufficio che la vita intima del datore di lavoro.
«Da quel momento – aggiunge Francesco Niccolini – Bartleby si spegne. Sta inerte alla scrivania, poi in piedi per ore a guardare verso la finestra; smette di uscire durante le pause, non beve, non mangia, arriverà a dormire di nascosto nell’ufficio, preoccupando (prima, e impietosendo poi) il suo principale che non riesce a farsi una ragione di quel comportamento. Il fatto è che Bartleby, semplicemente, ha deciso di negarsi. Perché? Quando lo scopriremo, sarà troppo tardi. Il silenzio inspiegabile di Bartleby ci turba e ci accompagna da un secolo e mezzo: perché sulla sua scrivania non batte mai il sole? Da dove viene la sua divina povertà? Perché non è possibile salvarlo? Perché non vuole essere salvato? Abituati all’idea di sviluppo e crescita senza limite con la quale siamo cresciuti, Bartleby ci lascia spiazzati: in lui nessuna aspirazione alla grandezza, solo rinuncia. In barba ai vincenti, ai sorrisi a trentadue denti, agli eternamente promossi e ai trend di crescita. Come se lui, il povero Bartleby simbolo della divina povertà, portasse sulle sue spalle il lutto per le titaniche e deliranti ansie di vittoria ed espansione del nostro mondo».
NOTE DI REGIA
Bartleby, l’obiettore. Nel 1851 Herman Melville scrive “Moby Dick”, grande storia romantica di un titano di nome Achab che affronta e sfida l’assedio di un oceano oscuro; qui un gigante forte e visionario ingaggia una spietata lotta che è lotta per la vita e per la morte o, forse sarebbe meglio dire, della vita e della morte.
Due anni dopo Herman Melville scrive “Bartleby, lo scrivano” e tutto sembra essersi calmato, spenti i fragori dei marosi, l’oceano si è ritirato e il panorama cambiato: siamo a Wall Street ai febbrili inizi di quello che si avvierà ad essere il più assediante, oscuro, spietato sistema finanziario/produttivo del mondo; il cuore pulsante intorno al quale nasceranno più di cento anni dopo, globalizzazione e crescite variamente felici. L’oceano si è trasformato nel mare dell’economia e della produttività, il Pequod in un ufficio seminterrato, la ciurma di marinai in un’altra ciurma di scrivani, Ismaele si è fatto avvocato e l’assedio di Wall Street è tale che si rende necessario assumere un aiuto, uno scrivano in più, un altro gigante, un altro titano: Bartleby.
L’ossessionato e ossessivo capitano si è trasformato in Bartleby, l’ultimo dei marinai arruolato, eppure capace di realizzare una lenta, progressiva, pacata messa in crisi di un sistema di cui non riconosce il valore positivo. Mentre tutto e tutti (scrivani, religiosi, soldati, banchieri, politici, artisti) procedono aggressivi e baldanzosi, forse colpevolmente ignari, fra nuove ricchezze e nuove schiavitù, l’ultimo entrato in scena si mette di traverso e con una frase che sembra arrivata da un remoto passato monastico, avvia un inesorabile processo dubitativo di disgregazione di un moloch che si incarna nel binomio “lavoro/dovere”. Bartleby si incunea e si incista nella storia positiva di Wall Street ma non è un batterio che ammalerà l’ambiente, è la cura che proverà a salvare un mondo malato che si nutre di numeri e algoritmi. Bartleby è l’eroe dell’inazione, della non violenza che è azione negativa e costruens allo stesso tempo; è il titano della grazia leggera di chi dice “non in mio nome”; è il gigante che usa un piccolo granello e poi un altro e un altro per inceppare il grande meccanismo che regola e cadenza notte e giorno dell’homo economicus.
Bartleby per tutto il tempo cerca il raggio di sole che una volta al giorno entra nell’ufficio sepolcro; forse Bartleby è principalmente questo, un seme che eroicamente, pervicacemente grida sottovoce il proprio diritto alla scelta e alla libertà e si fa filo d’erba in mezzo al cemento, contro tutto, ma per tutti.
Emanuele Gamba