Stuzzicante. Gustosa. Stratificata. Come la parmigiana di melanzane che, chissà perché, è l’unico menù previsto da Giuliana che ha appena sposato il semisconosciuto Pietro.
TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA è’ la prima delle undici commedie di Natalia Ginzburg. La scrive nel 1965, tre anni dopo avere vinto il Premio Strega con il suo capolavoro Lessico Famigliare. Come in quasi tutta la sua produzione affronta ancora temi eterni come l’amore, le relazioni, le madri, la morte, la diseguaglianza sociale. E ancora una volta ne parla quasi senza parlarne raccontando storie in apparenza semplici e familiari con la lingua concreta di tutti i giorni. Ti ho sposato per allegria nel suo inconsueto articolarsi tra assenze e presenze è una sorta di vertigine, di labirinto che conduce nello stesso punto dal quale si è partiti e da dove si riparte forse cercando un altro percorso. Chissà? Da qualche parte prima o poi si dovrà uscire. O forse no, proprio come in quella cosa che continuiamo a chiamare vita.
Si percepisce anche ad una prima lettura la netta sensazione di un distacco dai sentimenti, che ricorda Cechov (che la Ginzburg tra l’altro adorava). Nel senso che nessuno dei personaggi sembra mosso da empatia verso l’altro. Non Pietro nei confronti della madre e viceversa, non Vittoria nei confronti di Giuliana e viceversa, non Pietro nei confronti di Ginestra e viceversa. Insomma sembra tutto reggersi o crollare negli obblighi mal sopportati dei vincoli familiari e borghesi (tema sempre presente nell’autrice). E Giuliana e Pietro come si comportano? Il loro rapporto può reggere per l’allegria, può andare avanti con allegria? Che poi a ben vedere non è tanta nell’embrione di ménage familiare che i due stanno affrontando, non c’era nelle premesse (lei ragazza randagia sull’orlo del suicidio, lui non certamente ricco di sentimenti. In lotta, forse inconsapevole, tra un anticonformismo da cui si sente attratto e la gabbia borghese) e non sappiamo se questa allegria (per i sudamericani è la felicità) ci sarà in seguito. C’è invece una quasi paradossale sincerità nel mostrarsi per quello che si è. Una sincerità a volte brutale che fa ripetere ad entrambi e ossessivamente la domanda (a solo una settimana dal matrimonio e dopo qualche settimana di conoscenza) “perché ci siamo sposati?” Sarà questa la formula giusta? Chissà? Ma la commedia non è buonista, né consolatoria. I sentimenti invece nel bene e nel male li hanno i personaggi evocati e “viventi” attraverso il racconto (il teatro non è forse questo?) Tanti, tantissimi, che forse sono la vera genialità di questa commedia. Personaggi che costruiscono un mondo intero, ma anche un’epoca segnata da cambiamenti straordinari, che poi dopo pochi anni esploderà nella rivolta, nelle conquiste sociali, nello scontro generazionale, nello scontro di genere, nello scontro politico.
La Ginzburg scrive questa sua prima commedia nel 65. Da intellettuale militante e femminista non può (come d’altronde in tutta la sua opera e la sua vita) che occuparsi di questo cambiamento che sente sotto pelle e vede nei comportamenti e nelle strade. Ma lei lo fa con leggerezza, fa volare in cielo parole tabù come aborto e divorzio, facendo capire al pubblico borghese dei teatri dell’epoca che queste saranno conquiste inevitabili, che indietro non si torna (per il divorzio ci vorranno ancora una decina d’anni, per l’aborto quindici). Non c’è da scandalizzarsi. L’amore è libero. Giuliana attraversa molti letti fluidi come si direbbe oggi. Pietro poteva sposarne 18. Addirittura, la vedova Giacchetta vive con uomo sposato.
TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA è un testo comico? Sicuramente, anche irresistibile, ma non nella misura dell’intreccio, che non c’è per niente e nemmeno nelle gag o battute spiritose che non ci sono. Lo è per quel suo ritmo da commedia nei dialoghi molto efficaci e nella narrazione dei personaggi assenti e assurdi, ma anche molto concreti e riconoscibili da ognuno (chi non ha conosciuto un poeta maledetto, come Manolo, un’amica zitella col naso arricciato come Elena, una disinibita predatrice di uomini e donne come Topazia, una zia Bigotta come Filippa eccetera). La stessa Ginzburg della sua prima commedia (lei non sopportava prima di allora di scrivere per il teatro, poi ne ha scritto 11) ha detto: “ero molto triste e poi scrivendo è venuta fuori una cosa allegra”. Ecco forse è un’indicazione abbastanza opportuna. L’allegria deve venire quasi da sola, così come la comicità, tra le pieghe di una storia ricca di sfumature tra disincanto e tenerezza, il tutto miscelato con una certa dose di nostalgia, forse anche di rabbia per un mondo che non è poi andato così come doveva andare.
Per questo sono convinto che non sia opportuno modificare, adattare o tanto meno modernizzare il testo. Sono convinto che vada contestualizzato a quella metà degli anni 60 – così lontani e così vicini – e far risuonare parole e situazioni al cuore e all’intelligenza del pubblico del tempo presente.
Emilio Russo